Gli angeli di Montalvo
5 Maggio 2009Una pallida foschia galleggiava a mezz’aria tra l’asfalto e i lampioni che costeggiavano la strada; a tratti si riempiva di luce per un tempo indefinibile anche l’altro lato della statale, e due fari si lanciavano dal buio dell’orizzonte incontro a Mirna, che li lasciava sfrecciare via così, quasi in silenzio.
C’era stata una deviazione venti chilometri più su, uno smottamento dovuto alla forte pioggia di qualche giorno prima. Una pattuglia della stradale aveva fermato il traffico, bisognava fare il giro della collina abbandonando l’autostrada. Nulla di grave, aveva pensato la donna, purché si sbrighino, non vorrei trovarli qui anche domani.
In effetti una deviazione di quella portata, sostenuta per più di una sera, avrebbe potuto diventare una bella seccatura; otto ore di lavoro in città erano già sufficientemente pesanti senza aggiungere prolungamenti del viaggio pendolare quotidiano dovuti a non meglio precisati “lavori in corso”.
Commessa in un negozio di abbigliamento, trentasette anni, non eccessivamente bella, sposata e divorziata senza prole, Mirna era una persona precisa e abitudinaria (fin troppo, avrebbe aggiunto il suo ex-marito), intollerante verso gli imprevisti e le fatalità, cui cercava di sottrarsi il più possibile, ben consapevole di non poterci riuscire per sempre e completamente.
Quella sera aveva svoltato intelligentemente lungo la direzione indicata dagli agenti, concludendo tra sé un po’ seccata che, no, gli smottamenti non sono prevedibili. Va bene, prendo la statale.
Dopo aver guidato per circa mezz’ora nella tranquilla sera d’inverno, si rese conto che il suo viaggio stava per chiudere il cerchio intorno alla collina. Non conosceva benissimo quella zona di siepi e vigneti, ma sapeva che prima di rientrare in autostrada avrebbe dovuto passare da Montalvo, un piccolo paese attraversato dalla statale e dalla ferrovia.
Dovrebbe mancare poco, pensò, proprio quando le prime luci dell’abitato cominciavano a stagliarsi in fondo alla strada.
Sì, ecco il cartello.
La scritta maiuscola e nera su sfondo bianco passò tranquilla, lasciando posto a marciapiedi, insegne e semafori.
Deserto a quell’ora, il paese, già finito dopo pochi minuti. Già il buio e i lampioni, di nuovo.
All’improvviso, sul ciglio della strada, vide qualcosa.
Istintivamente rallentò.
Ora, nel retrovisore, quell’ombra chiara.
Ma… è una persona quella… quella… diobuono, sembra una bambina!
Frenò.
Che ci fa una bambina, sola, a quest’ora, lì, al lato della strada?
Mirna era una persona precisa e abitudinaria, intollerante verso gli imprevisti e le fatalità, ma aveva rimpianto a lungo nella sua vita il non aver mai potuto avere dei figli. E le era rimasto dentro un senso di maternità latente, una voglia straordinaria di contatto con i bambini, un affetto triste e smisurato verso ognuno di loro; la retromarcia fu quasi immediata.
La bambina non si mosse. L’auto la illuminò mentre sopraggiungeva, e Mirna vide questa creaturina bruna, di circa otto anni, vestita di bianco, tranquilla.
Abbassò il finestrino.
– Ciao…
– Ciao – rispose lei. Sembrava incuriosita.
Mirna le sorrise.
– Non è un po’ tardi per stare qui da sola? La tua mamma e il tuo papà dove sono?
– Ora vado a casa…- disse, con un’aria che alla donna sembrò un po’ colpevole. Probabilmente si era allontanata senza permesso e adesso si rendeva conto che al suo ritorno la reazione dei genitori non sarebbe stata piacevole.
– Dove abiti?
– Più in là, dopo la ferrovia…
Mirna sorrise di nuovo. Qualche centinaio di metri con una bambina accanto, come fosse sua figlia, in viaggio con lei… Sognare, per qualche minuto…
– Monta, dài, che ti accompagno.
Le aprì la portiera.
La bambina lentamente si pose a sedere, la donna la aiutò a mettere la cintura di sicurezza.
L’auto ripartì.
Il cuore di Mirna, per qualche minuto, sembrò danzare felice.
Al ritmo del motore.
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Stettero in silenzio per qualche istante, poi Mirna provò a parlare:
– Come ti chiami?
Da un lato era curiosa di conoscere meglio il motivo per cui la bambina aveva scelto di disubbidire così platealmente ai suoi genitori, che certamente mai le avrebbero consentito di allontanarsi da casa a quell’ora (per raggiungere un posto buio e pericoloso come la statale, poi!); dall’altro moriva dal desiderio di udire la sua voce di donna mescolarsi nell’abitacolo a quella di quel piccolo passerotto bruno…
Quasi si commosse.
– Mi chiamo Candida Susanna – rispose la bambina. Poi tacque.
– Che nome, anzi, che nomi particolari! – esclamò Mirna sorridendo. E per un attimo si voltò a guardarla.
Si accorse che la bambina stava fissando la strada diritta davanti a sé, immobile, le sembrò che stesse inquietandosi, che avesse paura.
– Senti… – provò a dirle – Va bene, hai fatto una cosa pericolosa e imprudente, papà e mamma si arrabbieranno di certo, ma… Dài, proverò a parlarci io, vedrai che non ti puniranno… Sempre naturalmente che tu prometta di non farlo mai più!
Si voltò ancora. La bambina tremava, pallida in volto. L’auto imboccò il passaggio a livello, Candida Susanna portò su le ginocchia, le abbracciò nascondendovi la testa e disse piano, quasi nel pianto:
– No…
– Ehi… – mormorò Mirna – che ti succede?
Accostò. Allungò un braccio come per accarezzarla, poi ci ripensò e lo trattenne a mezz’aria. In fondo non si conoscevano, non sapeva come avrebbe reagito, era meglio piuttosto affrettare il suo ritorno a casa e riconsegnarla ai genitori. Aveva proprio voglia di conoscerli questi due incoscienti che non si rendono conto della scomparsa di una bambina di otto anni!
Candida Susanna rialzò il capo.
Aveva pianto. In silenzio.
Mirna provò a dire:
-Va meglio?
La bambina si voltò indietro, guardò il passaggio a livello e la strada immersi nel buio.
– Sì… – rispose, poi aggiunse frettolosamente tornando a guardare la strada davanti a sé – Quella, quella è casa mia, andiamo!
Stava indicando delle luci poco lontane, una piccola strada interna alla campagna. Mirna ripartì.
Giunsero in pochi minuti davanti ad una casa coloniale, elegante, illuminata.
Gente ricca, pensò Mirna, poi si rivolse alla bambina:
– Eccoci arrivati, Candida Susanna, dài, scendiamo…
Lei non si mosse, guardava la casa, sembrava immersa in chissà quali pensieri, non le rispose neanche.
Mirna sorrise.
– Va bene, hai ragione, te lo avevo promesso, vado io in avanscoperta e li preparo. Tranquilla, li convincerò, certo si arrabbieranno un po’, ma passerà in fretta, vedrai…
Le voltò le spalle e attraversò la verandina che conduceva alla porta d’ingresso. Bussò un paio di volte.
Vide due finestre in alto illuminarsi di luce, poi udì un lento discendere di scale. Si aprì la porta e comparve una donna sulla quarantina in abito da casa e pantofole.
– Buonasera signora – cominciò Mirna – non si spaventi, non è successo nulla, ho trovato sua figlia sulla statale, ho pensato fosse pericoloso lasciare che restasse lì, così l’ho convinta a seguirmi e gliel’ho riportata a casa…
La donna sbarrò gli occhi.
– C-cosa?
– Sua figlia, Candida Susanna…
Il volto della madre parve accendersi di odio, lo sguardo le si illuminò di una luce cattiva. Mirna cominciò addirittura a temere per la bambina, poi vide che gli occhi della donna si stavano riempiendo di lacrime.
– Vada via…
– Signora…
– Vada via, ho detto! Se ne vada o chiamo la polizia!
– La polizia? Ma… forse non mi sono spiegata, le sto dicendo che sua figlia è nella mia auto. Guardi è qui! – Mirna si avviò in fretta verso l’auto, per aprire la portiera, per farglielo vedere che sua figlia era lì! Sua figlia era lì, ecco, sua figlia era…
La bambina non c’era più.
Il sedile vuoto. La cintura ancora allacciata.
Mirna si voltò di nuovo verso la donna.
– Era qui – mormorò – dev’essere scesa…
– Senta – disse la madre con voce di pianto – io non lo so perché è venuta qui, né cosa spera di ottenere… Ma abbia pietà di questa casa e di chi vi abita…
Tacque.
Mirna non capiva.
– Signora, guardi…
– Mia figlia Candida Susanna è morta sette anni fa, la lasci riposare in pace… Se ne vada. Se ne vada e non torni mai più…
Non disse altro. Si chiuse la porta alle spalle.
Mirna restò lì inebetita, vicino alla sua auto.
La portiera aperta e il sedile vuoto.
La cintura ancora allacciata.
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Le tremavano ancora le mani.
Un raggio di sole si era incuneato tra le fessure di una delle tapparelle della cucina. Si era posato proprio sul pavimento, sembrava quasi volesse dire “ciao, ben alzata, muoviti a uscire, qui fuori è una splendida giornata”.
Ma a Mirna tremavano le mani e non aveva dormito un granché.
Cosa pensare? Un dispetto crudele, uno o più bastardi che mandano in giro una bambina a fare scherzi idioti!
No, nessuna allucinazione, non sono pazza, né scema; io SO che ieri accanto a me sul sedile c’era una bambina!
Le cadde la tazza dalle mani, il caffé si sparse sul pavimento.
– Dannazione… – mormorò – E’ inutile prendersi in giro. C’è solo una cosa da fare…
Telefonò al lavoro e si diede malata. Poi si preparò per tornare a Montalvo.
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Salì in macchina e l’occhio le cadde subito sulla cintura di sicurezza del sedile accanto. Era ancora agganciata. La guardò per circa un minuto, indecisa. Le mani ripresero a tremare.
Dopo qualche istante accese il motore senza voler ammettere con se stessa che non l’avrebbe sganciata perché le faceva paura, perché… va bene, lo so, è solo suggestione diosanto!
L’avrebbe sganciata dopo, dopo aver risolto la questione.
Guidò veloce, decisa, quasi con prepotenza. Aveva fretta, una smania irrazionale di arrivare là che si calmò soltanto quando intravide alla sua destra la casa coloniale e di fronte a sé il passaggio a livello.
Rallentò.
Tornare dalla madre di Candida Susanna e cercare di spiegare?
No, meglio di no, non ora comunque, prima… Frenò di scatto, l’auto inchiodò violentemente. Aveva oltrepassato il passaggio a livello solo di qualche metro. Sul ciglio della strada c’era una lapide. Sentì di doversi fermare.
Era una sensazione strana. Era come se avesse già tutte le risposte, come se sapesse, ma si ostinasse a ignorare ciò che percepiva. Perché voleva leggere bene quella lapide? Come faceva a sapere che aveva a che fare in qualche modo con ciò che le era successo la notte precedente?
Scese dall’auto e raggiunse la lastra in marmo nero ritta sul ciglio della strada. Ai suoi piedi mazzi di fiori ancora freschi. Lettere d’argento disegnavano una quindicina di nomi.
Anna, Riccardo, Lisa, Giuliana, Robertino… ma certo, perché stupirsene?
Sorrise amaramente. In fondo l’aveva immaginato, no?
C’era anche lei…
Candida Susanna.
Poi guardò le date di nascita. Erano tutti bambini di circa otto anni.
Il giorno della morte era lo stesso.
Per tutti.
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Mirna sapeva bene che sarebbe stato molto meglio per lei lasciar perdere, che c’era il rischio di lasciarci la sanità mentale, su quella collina. Ma riprese ugualmente il cammino e, giunta in paese, si fece indicare dal primo passante la strada per il cimitero.
No, va bene, ora basta, ora torno a casa e chiamo qualche amico, racconto tutto e mi faccio ridere in faccia, sarà la cura migliore.
Invece l’auto si era già fermata davanti al cancello del piccolo camposanto che i suoi piedi avevano già varcato, e nell’aria solo il rumore dei suoi passi sulla ghiaia, e sugli alberi il cinguettìo degli uccelli.
Un uomo, in fondo al viale, il custode, la vide e le si fece incontro.
– Buongiorno…
Ancora quella sensazione che sarebbe stato molto meglio andare via, ma riuscì solo a mormorare:
– Candida Susanna…
L’uomo sorrise tristemente e indicò subito la tomba immediatamente alla loro destra, come a voler dire “Sei fortunata, è proprio qui”.
Mirna si voltò e un brivido gelido, come un dolore, le corse fulminante lungo la schiena.
Nel piccolo ovale sulla croce c’era la foto della bambina.
La bambina che ieri sera aveva riaccompagnato a casa.
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Per fortuna il custode si era allontanato.
Se l’avesse vista in quello stato, lui sì che avrebbe chiamato la polizia.
Seduta sulla piccola tomba, con le mani tra i capelli, Mirna dava le spalle alla fotografia e piangeva, rideva, piangeva. Piano, quasi in silenzio.
Non sapeva che fare, che pensare; che cosa, che cosa davvero le era successo?
E quello che più la faceva soffrire, si stupì nel rendersene conto, non era la spaventosa straordinarietà di ciò che stava vivendo, no; lei piangeva perché Candida Susanna era morta, perché quella bambina così fragile e dolce non c’era più, se n’era andata e non aveva importanza da quanto tempo. Era morta…
A otto anni.
Ritrovò il coraggio di voltarsi e guardò di nuovo la foto.
Com’era bella! Sorrideva e aveva gli occhi bambini. I lunghi capelli neri racchiusi in due piccole trecce.
Candida Susanna…
– Era sua parente?
Mirna trasalì, il custode era tornato. Si alzò, cercò di ricomporsi alla meglio i capelli e i vestiti.
– Mi scusi, l’ho spaventata…
Era un uomo rotondo, baffi e capelli bianchi, una tuta blu da operaio.
– E’ una parente? – ripetè.
– S-sì, ecco, una… una specie, sì, io vivo lontano da qui e… – si asciugò gli occhi.
– Eh, sono passati sette anni, ma per tutti, per tutto il paese, è come se fosse oggi… – disse l’uomo e si voltò a raccogliere un annaffiatoio. Stava allontanandosi di nuovo.
Mirna lo fermò con la voce.
– Come… Come è successo?
L’uomo s’arrestò di scatto. Attese qualche secondo prima di voltarsi, sembrava non fosse sicuro di aver capito bene.
Tornò indietro fino a giungere di fronte alla donna. Il suo sguardo era colmo di stupore.
– Lei… Lei davvero non lo sa? Diamine, ne parlarono tutti i giornali! Gli angeli di Montalvo!
– N-no, io…
L’uomo tacque e abbassò lo sguardo. Era come se fosse oggi davvero… anche per lui.
– Era una gita scolastica – riprese, alzando di nuovo il capo e guardando la tomba della piccola Candida Susanna – stavano andando in uno zoo o qualcosa del genere… Lei ha visto il passaggio a livello alla fine del paese? Non ha le sbarre (pensi, dopo quello che è successo ancora non gliele mettono!); lo scuolabus va per attraversarlo e all’improvviso si spegne il motore e restano tutti lì, fermi sui binari. Beh, chiaramente l’autista prova subito a rimettere in moto, ma nulla da fare. Quando sentirono la campana del treno era già troppo tardi…
Tacque di nuovo.
– Sono tutti qui, sa? – Mirna vide gli occhi dell’uomo diventare lucidi – Si faccia una passeggiata, si guardi intorno, sono le tombe più piccole e più ricche di fiori… Ma la cosa bella è che qualcuno dice che siano anche ancora lì…
Lo sguardo di Mirna si illuminò.
– Lì, dove?
– Lì, al passaggio a livello – disse l’uomo – Ogni tanto a qualcuno del paese capita di vederli, si dice si siano fermati lì a fare la guardia, perché non capiti di nuovo… Gli angeli di Montalvo…
– Gli angeli di Montalvo… – ripeté Mirna, mormorando.
– Oh, naturalmente son leggende! – esclamò l’uomo, sorridendo finalmente – Ma è bello pensare che sia vero, non trova?
La donna guardò la fotografia di Candida Susanna. Le mani ripresero a tremarle.
– Sì, ha ragione – disse piano – è veramente bello pensarlo.
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Mirna volle passare il resto della giornata a Montalvo.
Mangiò qualcosa nell’unico bar del paese, senza più parlare con nessuno. Aveva deciso che per non impazzire doveva pensare che ciò che era successo, era successo.
Non erano possibili altre spiegazioni razionali?
Va bene, non importava.
Sarebbe restata ancora in paese per toccare con mano quella realtà, per rendersi conto che Montalvo esisteva ed esisteva quella leggenda. Poi, basta.
Era certa di aver voluto bene a Candida Susanna e concluse che per quanto l’ignoto avrebbe potuto metterle paura, non le avrebbe comunque impedito di conservare nel suo cuore il dolce ricordo di quella bambina.
Camminò per Montalvo, ne visitò le strade, osservò le sue case.
Portò anche dei fiori sulla lapide vicino al passaggio a livello.
Percorse a piedi il tratto di strada in cui aveva preso in auto Candida Susanna, ma non riuscì ad individuare il punto preciso in cui si era fermata a raccoglierla. Allora gettò un fiore più lontano che le fu possibile e pensò che in fondo era bello anche così.
Scese la sera. Il buio e la foschia ripresero possesso del paese e dei suoi dintorni. Mirna pensò che, sì, adesso doveva per forza andare via.
Salì in auto e per un’ultima volta girovagò per quelle stradine, raggiunse poi il cimitero e vi si fermò davanti per un attimo.
Attraverso il cancello in ferro battuto poteva vedere il tremolìo dei piccoli lumi ai piedi delle lapidi, come una miriade di candele a danzare nel silenzio.
Era sola, lì, davanti al camposanto, ma non aveva paura.
– Ciao, piccola Candida Susanna – mormorò. E ripartì.
Tornata nel centro del paese imboccò la strada principale e, accelerando, prese finalmente con decisione la via di casa.
Si ritrovò presto nel buio sulla via del passaggio a livello. La percorse lentamente, con lo sguardo fisso sul ciglio della strada.
Nessuno.
Stavolta non c’era nessuno.
Tirò giù un sospiro. Mille pensieri le agitavano la mente, era tutto confuso. Di certo vi era solo che stava andando via in preda, chissà perché, ad una grande tristezza.
Imboccò il passaggio a livello.
Giunse sui binari e l’auto si fermò.
Le si gelò il sangue nelle vene.
Il motore si era spento senza alcuna ragione.
Afferrò febbrilmente la chiave e la rigirò con forza.
Nulla. L’auto non dava più alcun segno. Non una luce sul quadro, non un rumore.
Cominciò ad agitarsi, a tremare, no, non poteva essere, adesso si accende, devo togliermi da qui, muoviti dannata carretta, muoviti maledizione! …e girava e rigirava la chiave.
La campana cominciò a suonare all’improvviso, Mirna si voltò e vide alla sua destra una luce che le veniva incontro velocissima.
Cominciò a urlare, mentre con le mani cercava nel buio di aprire la portiera. L’abitacolo si illuminò di bianco accecante e nell’aria risuonò un fischio acuto e lunghissimo.
Mirna urlò più forte e si raggomitolò su se stessa.
Fu come se una forza enorme afferrasse l’automobile e la spingesse via. Sentì soltanto, mentre ancora stava urlando, il treno che passava nel rimbombare di una terribile e violenta folata di vento gelido. Poi rumore, rumore, rumore, ancora rumore, lunghissimo rumore, per tanto tempo, rumore per sempre… no!
Tornò il silenzio.
Per lunghi minuti Mirna non si mosse. Poi alzò la testa che aveva riparato con le braccia e si guardò intorno.
Era viva.
Era ancora viva.
Scese dall’auto, sconvolta.
Ora si trovava dall’altro lato del passaggio a livello, dall’altra parte dei binari.
Girò intorno alla macchina, non le sembrava vero che non avesse riportato neanche una scalfittura.
Quando controllò la parte posteriore del mezzo si accorse che sul cofano c’era qualcosa di strano, come delle macchie.
Prese da sotto al sedile la torcia tascabile e fece luce.
Sembravano… no, erano impronte! Tante impronte di piccole mani!
Mani di bambino.
Il cuore le si tuffò in gola e rialzò lo sguardo verso il passaggio a livello.
Dall’altra parte dei binari c’era un gruppo di bambini vestiti di bianco che la stava osservando.
Si appiattì contro l’auto e scivolò lentamente a sedere sull’asfalto, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime e tutto il suo essere urlava di terrore.
Ma i bambini parvero subito non darle più alcuna importanza.
Uno ad uno si voltarono e cominciarono ad allontanarsi nel buio.
Candida Susanna aspettò fino a rimanere l’ultima.
Lei e Mirna per lunghissimi istanti restarono sole, così.
Separate soltanto dai binari.