Nedo Nencioni: il diario di un sopravvissuto all’inferno nazista di Mathausen

Nedo Nencioni: il diario di un sopravvissuto all’inferno nazista di Mathausen

6 Gennaio 2009 0 Di thomas

Nedo Nencioni è abituato a raccontare la sua storia; lo fa da decenni, senza mai stancarsi, senza smettere nemmeno per un attimo. Nelle scuole, in congressi, conferenze, riunioni, manifestazioni. Perché le persone non devono dimenticare, perché i giovani devono sapere.
Ogni anno accompagna intere scolaresche a visitare il campo di Ebensee; la prima cosa che mi mostra con orgoglio quando entro nella sua casa di Fucecchio è un plico di lettere scrittegli dai ragazzi che ha conosciuto in queste occasioni.
Lo ringraziano. Così come lo ringrazia il Presidente della Repubblica in un’altra lettera posta all’inizio del suo diario, un libro in procinto di essere pubblicato dalla Regione Toscana che si intitola “Da adolescente pieno di vigore a zombi nell’inferno di Mathausen e dei suoi sottocampi”. Alla fine del libro altre lettere, riflessioni, pensieri di ragazzi che si mescolano, si uniscono in un unico enorme moto di sdegno contro la follia umana.
Il libro, che ho avuto il privilegio di leggere in anteprima, è corredato da fotografie a volte inquietanti e terribili, ma il senso di tutto ciò che Nedo scrive è nella sua dedica, all’apertura: “questo è il mio diario/è rivolto a chi lo legge/perché possa distinguere/ciò che è il bene e ciò che è il male!”.
La sua missione, appunto. Il compito suo e di tutti quelli che come lui hanno vissuto quella indescrivibile tragedia… raccontare.
Nedo oggi ha 77 anni. E’ un uomo gentile, disponibile. Si siede di fronte a me disposto a ripetere tutto ancora una volta, e ancora… Comincia a rispondermi, gesticolando deciso. Guardandomi con occhi vivi, accesi.

Cosa ricorda dell’Italia di quell’epoca? La gente si rendeva conto di quello che stava accadendo?

Il fascismo era salito al potere grazie a Mussolini, che in realtà era un socialista di estrema sinistra, quindi nel ‘21 quando nacque il partito comunista ci si sarebbe aspettati che anche lui entrasse a farne parte; essendo però costui un uomo ambizioso e rendendosi conto che entrando a far parte dei comunisti non avrebbe potuto ottenere il potere, preferì allearsi coi capitalisti, inducendo in errore chi lo riteneva di sinistra.
Molti dicevano “voto fascista perché c’é Mussolini”; fu uno sbaglio che fece lo stesso Nenni che entrò a far parte del Gran Consiglio e ne uscì appena si rese conto di quello che stava succedendo.
La gente si iscriveva al partito fascista anche per questioni di lavoro. Chi non era fascista non otteneva sul libretto di lavoro il nulla-osta, chi aveva un negozio se non era iscritto al fascio non lavorava…

Il lavoro fu il motivo che provocò la deportazione di suo padre…


Sì, fu preso per motivi legati ad uno sciopero, ma molti furono deportati in seguito ad odi personali e politici; alcuni erano fascisti che avevano dato fastidio a qualcuno o che avevano esultato quando il fascio era caduto (mi elenca i nomi di alcuni personaggi dell’empolese, mi fa il nome anche del calciatore Castellani, cui oggi è intitolato lo stadio di Empoli, n.d.r).

Quindi non sempre si veniva deportati per motivi razziali.

No, ad esempio so di un carabiniere che l’8 settembre fu inviato insieme ad un migliaio di suoi colleghi in Germania; capitò che una notte fu fermato da una pattuglia tedesca mentre era in giro a cercare qualcosa da mangiare. Gli chiesero in tedesco cosa facesse in giro a quell’ora, lui non capì. Lo portarono in caserma, dove gli posero nuovamente la domanda e lui di nuovo non seppe rispondere. Lo deportarono al campo di sterminio di Dachau…
Nel mio libro parlo anche di un certo Tiziano, un fascista che quando fu fondata la Repubblica di Salò inizialmente rifiutò di aderirvi; fu costretto con le minacce a rimettere la divisa. Quando presero me e mio padre catturarono anche lui.

La deportazione dunque non aveva regole.

Era basata prevalentemente su motivi razziali, odi politici e semplici errori. So un altro caso di un repubblichino che dava la caccia ai partigiani spacciandosi per uno di loro. Una volta, mentre era in borghese, arrivarono altri repubblichini con un gruppo di SS. Insieme agli altri, presero anche lui e lo portarono a Mathausen, dove morì…
Ripeteva spesso “ora capisco cosa significa essere repubblichini e nazisti”.

Suo padre fu preso perché aveva scioperato. Perché presero anche lei, che era poi un ragazzino?

Mi ero trasferito a Empoli dopo i bombardamenti avvenuti a Livorno, dove vivevo. Alla notizia dell’armistizio tutti noi livornesi avevamo gioito per quella che credevamo fosse la fine della guerra. A Livorno sotto i bombardamenti molte persone avevano perso i propri cari, la casa, tutto ciò che avevano, qualcuno era rimasto invalido. La fine della guerra significava il poter ricominciare una vita normale… Fummo catturati per questo, perché avevamo gioito.

Mi racconta come si svolgeva una giornata nel lager?

Ci alzavamo la mattina alle 5, andavamo a lavarci, rientravamo nella baracca e ci davano mezzo litro di caffé; acqua bollita con dell’erba amara come il veleno, ma dovevamo berla per mettere qualcosa nello stomaco. Poi andavamo nella piazza dell’appello per la “conta”. Durante la conta venivano contati tutti i prigionieri, compresi i morti, che venivano portati anch’essi sullo spiazzo. Due SS facevano il giro nelle infermerie per contare anche i ricoverati.
Il campo era diviso in “comandi”. Ogni comando era formato da 100 persone, subordinate a un Kapò e a dei Sotto-Kapò. Ci portavano a lavorare. Ogni squadra aveva un compito preciso.
All’inizio fui assegnato alla squadra che stava costruendo una strada ferrata all’interno di alcune gallerie in cui sarebbe dovuto passare il treno che trasportava il petrolio destinato alla raffinazione. All’interno delle gallerie lavoravano dei carpentieri che realizzavano le volte dei tunnel. C’erano poi dei gruppi che, muniti di pertiche, dovevano controllare che non vi fossero pietre pericolanti. Non erano rare, durante queste verifiche, frane in cui perdevano la vita anche 30-40 prigionieri.
Dalle gallerie venivano portati fuori i vagoncini carichi di macerie. La prima volta che mi misero a svuotare i vagoncini restai un attimo indeciso perché non avevo capito cosa dovevo fare di tutte quelle pietre. Arrivò un Kapò e comnciò a colpirmi con il bastone di gomma ripieno di fili di piombo che tutti loro avevano in dotazione. Cominciai a sanguinare dal capo, dalla bocca, dal naso, persi i sensi e rotolai in fondo a una scarpata. Mi rinvennero a forza di secchi d’acqua.
Quando mi ripresi il Kapò mi chiese quanti anni avessi. Lì per lì non capì, ma c’era vicino a me un deportato, un avvocato di Roma, che mi tradusse la domanda.
Riposi: “sedici anni”. Da quel giorno il Kapò non mi toccò più, ma io, ogni volta che con la coda dell’occhio lo vedevo avvicinarsi, mi davo comunque molto da fare con la pala…
Cominciai ad imparare il tedesco, non perché me lo insegnassero, ma perché lo memorizzavo per non essere picchiato. Ad esempio; venivamo chiamati per numero; io ero il 57302. Quando ci portavano a fare la doccia, la sera verso le dieci, ci denudavano, che fosse estate o inverno non aveva importanza, e ci mettevano in fila. Indosso avevamo solo una coperta, mentre i nostri vestiti venivano portati altrove per essere disinfettati. Facevamo la doccia 100 alla volta, ci asciugavamo con la coperta che avremmo poi usato, bagnata, per dormire. Verso le due di notte ci svegliavano per restituirci i vestiti, ci chiamavano in tedesco per numero.
I vestiti di coloro che erano stati chiamati ma non avevano capito venivano posti in una cesta. Alla fine della distribuzione quelli che erano rimasti nudi venivano picchiati e mandati a letto. La mattina dopo, nei bagni, altre botte, dopodiché finalmente potevano recarsi alla cesta a riprendersi i loro abiti.
Quando dico “botte”, non dico un ceffone e via… macché! Finché non vedevano il sangue non si fermavano, a volte capitava che il malcapitato venisse ucciso.
I Kapò erano tutti ex-criminali, cui il governo nazista aveva offerto la libertà in cambio di questi servizi resi nei campi. Per loro uccidere non era un problema, più che nelle mani delle SS si può dire che eravamo nelle loro mani. Certo le SS, se i Kapò uccidevano qualcuno, non è che facessero storie…
Si lavorava 12 ore al giorno.
A mezzogiorno ci davano da mangiare una cosa che chiamavano zuppa e che poteva essere di bucce di patate, di rape bianche o di miglio. Quando era a base di miglio eravamo più contenti perché era un po’ più densa.
La sera ci veniva dato un pane spesso ammuffito ogni tre persone, più 12 grammi di margarina, ma spesso la quantità di margarina era minore perché veniva rubata dai Kapò.

Poi andavate a dormire?

Sì. Nelle baracche non eravamo divisi per nazionalità, non c’era un blocco degli italiani, uno dei francesi… eravamo promiscui, in modo che non potessimo comunicare tra di noi e organizzare una ribellione.

Il fatto che facessero la “conta” porta a pensare che l’eventualità di una fuga non fosse poi così remota. Non capitava mai che qualcuno provasse a scappare? E quando qualcuno ci riusciva cosa succedeva?

Una volta capitò che un russo scappò durante il ritorno dal lavoro al campo. Fatta la conta, i Kapò si accorsero della fuga, ci misero a fare flessioni per ore ed ore. Ad un certo punto io non ce la facevo più, alzavo e abbassavo solo la testa.
Ritrovarono il fuggiasco dopo tre mesi. La difficoltà di chi fuggiva era che risultava a tutti facilmente riconoscibile. Dopo 11 giorni di permanenza al campo ci rasavano, lasciandoci solo una riga di capelli nel mezzo (la chiamavano “strasse”). Poi indossavamo la divisa del campo e comunque chi fuggiva si ritrovava in un paese straniero del quale non conosceva la lingua.
Per la legge del campo chi tentava la fuga doveva essere impiccato davanti a tutti. Vicino alle cucine c’erano due alberi tra i quali era stata posta un’ asse con una corda. Sotto quest’asse mettevano due sgabelli uno accanto all’altro e un terzo sgabello veniva posto sopra i primi due. Il condannato veniva fatto salire, gli veniva posta la corda intorno al collo, poi veniva tolto lo sgabello… noi dovevamo assistere.
Il russo, quando venne ritrovato fu però condannato alla pugnalazione.
Fu legato alla sedia e ricordo che ad esecuzione finita aveva la scatola cranica scoperchiata e tutte le budella di fuori.

Ci fecero sfilare accanto al morto 5 alla volta. Quando fu il mio turno un sergente maggiore delle SS mi afferrò per un braccio e mi gettò contro il cadavere urlandomi in tedesco “hai visto? Stai attento!”.
Mio padre era lì accanto a me e mi disse “non ti impressionare, Nedo… è morto”. Questo episodio mi addolorò, perché mi resi conto che in quel momento mio padre aveva sofferto per me.
Un altro caso capitò quando dei giovani, pensando che il campo non fosse molto distante dal confine italiano, organizzarono una fuga perché qualcuno arrivasse in Italia e preparasse una spedizione per liberarci tutti.

L’incarico toccò ad un ragazzo di Prato che però fu ritrovato la mattina dopo vicino ai fili spinati (da cui passava la corrente elettrica), sbranato dai cani.

Questi furono tentativi di fuga. E tentativi di ribellione ve ne furono?

No, era impossibile, al minimo movimento ti saltavano addosso e ti ammazzavano, l’unica speranza che avevamo era che finisse la guerra.

Riuscivate ad avere notizie?

A me in particolare capitò di essere trasferito in un magazzino che era stato affidato ad un tedesco. Quando arrivai questa persona notò che ero giovane e mi chiese quanti anni avessi. Glielo dissi (scoprii poi che aveva la mia stessa età). Lui mi mise vicino a una finestra e mi disse “Stai qui, se vedi arrivare qualcuno ti metti ad ungere un bullone, fai vedere che fai qualcosa”.

La prima persona buona!

Sì. Io in gli tenevo pulita la sua stanzetta e lui a pranzo mi dava un po’ di pane o di pasta… e notizie su come andava la guerra.
Una volta capitò che le SS si ritrovarono con un certo quantitativo di patate che non sapevano dove mettere e chiesero a questo giovane capo magazzino di prendere lui in consegna il carico. Un mio compagno di prigionia mi suggerì di andare a chiedergli un po’ di patate. Mi disse che avremmo potuto dividerle in tre: io, lui e mio padre. Pensai a mio padre e accettai.
Quando gli chiesi le patate il capo magazzino mi domandò: “ma come le mangerete?”. Io risposi “crude”. Allora lui mi suggerì di metterle in una bacinella che avremmo poi posto sulla stufa che c’era nel suo stanzino.

Difficilmente le SS si sarebbero preoccupate di controllarne il contenuto.
Andammo avanti così per un po’, finché un giorno non entrò all’improvviso un Kapò che ci trovò seduti a mangiare. Il capo magazziniere gli diede 100 marchi, alcuni pacchetti di sigarette… insomma, cercò di convincerlo a non rivelare a nessuno ciò che aveva visto. La mattina dopo però, quando mi recai al lavoro vidi che il mio amico non c’era più e il nuovo incaricato della gestione del magazzino mi disse che da quel giorno in poi avrei lavorato altrove.

Pensai subito che il mio amico fosse stato punito o ucciso, perché vigeva la legge che se qualcuno veniva scoperto ad aiutare i prigionieri doveva subirne la stessa sorte. Per esempio, se si chiedeva la cicca della sigaretta a qualcuno che stava fumando, costui solitamente la buttava per terra e la schiacciava col tacco, proprio perché vi fosse la certezza che non aveva offerto nulla al prigioniero.
Tornando al capo magazzino: dopo la guerra mi fu chiesto di mettermi in contatto con uno scrittore austriaco che stava scrivendo un libro sul campo di Ebensee e cercava dei sopravvissuti che gli narrassero le loro esperienze.
Accettai di aiutarlo e, tra le altre cose, narrai a questo scrittore anche della mia amicizia con questo ragazzo, il quale, quando il libro fu pubblicato, lo comprò e lesse anche lui il mio racconto, riconoscendosi.

Così, durante una delle manifestazioni che l’associazione dei deportati organizza periodicamente presso il campo di Ebensee, mi avvertirono che c’era un signore che girava tra gli ex-prigionieri portando in mano il libro dello scrittore austriaco e al collo un cartello con la frase “cerco Nenconi Nedo” (il cognome lo aveva scritto sbagliato). Lo indirizzarono subito da me, ma io non lo riconobbi subito. Quando cominciò a raccontarmi quello che avevamo vissuto insieme capii che si trattava di lui e ci abbracciammo, dopo 50 anni…

Le è mai capitato, invece, di incontrare di nuovo qualcuno dei suoi aguzzini?

No. Una mattina, all’appello, ci dissero che da quel giorno in poi non saremmo stati più prigionieri e precisarono che non si erano stancati di tenerci, però stavano per arrivare i nostri liberatori. Ci consigliarono, dato che ci sarebbe stata una battaglia e ci saremmo trovati tra due fuochi, di rifugiarci nelle gallerie, ma noi non ci fidammo e rifiutammo di nasconderci (poco dopo le gallerie saltarono in aria). Non fecero in tempo a costringerci; tutto lo stato maggiore tedesco fuggì subito, qualche ora dopo scapparono anche le sentinelle. Alla fine rimasero solo i kapò. Forse pensavano di essere in grado di difendersi. Accadde però che i prigionieri più in forze riuscirono ad entrare negli appartamenti che lo stato maggiore aveva abbandonato. Qui trovarono delle armi… Così quasi tutti i Kapò furono uccisi.

Ci fu una rivalsa, dunque, una sorta di vendetta. Oggi prova del rancore?

Durante una cena commemorativa in un locale di Ebensee mi capitò di rimproverare di maleducazione dei giovani del luogo. Il sindaco della cittadina, presente alla cena, colse l’occasione per domandarmi se portassi ancora rancore nei confronti dei tedeschi. Gli risposi che il giorno della liberazione, se ne avessi avuto le forze, avrei sicuramente cercato di partecipare anch’io alla battaglia contro i Kapò. Oggi, riflettendo dopo che è passato tanto tempo, non posso non considerare vittime del nazismo anche gli stessi tedeschi.
Tra l’altro anche noi italiani eravamo odiati un po’ da tutte le altre popolazioni; al campo, dove, come ho detto, i prigionieri erano di diverse provenienze, me ne rendevo conto benissimo. I greci, ad esempio, ci rimproveravano di aver ucciso molti bambini, i francesi ci rinfacciavano di aver bombardato indiscriminatamente ospedali, chiese e abitazioni civili, gli stessi tedeschi ci consideravano dei traditori, insomma, eravamo odiati un po’ da tutti.

Mi racconta il suo primo minuto da uomo libero? Che sentimenti provò?

Beh, non fu proprio una gioia… Sì, ci si sentiva liberi, contenti, ma anche mortificati, perché molti di noi avevano perso i propri cari (io mio padre). Fu una via di mezzo tra la gioia e la tristezza; la gioia data dalla caduta del fascismo e del nazismo, dalla consapevolezza del ritorno alla vita, dalla certezza di avercela fatta, di essere di nuovo liberi. Giurammo tutti che avremmo cercato di far sì che la gente non dimenticasse.

Lei sente di avere un’enorme responsabilità, vero? Si rende conto di rappresentare una memoria che deve restare sempre accesa… Come si vive portando sulle proprie spalle un simile peso?

Quando mi reco nelle scuole e racconto la mia storia i ragazzi mi abbracciano. Questo è il mio appagamento. L’appagamento per quello che le nostre generazioni hanno sofferto durante il fascismo. La guerra, la fame… E oggi dicono che anche i fascisti combattevano per un ideale!

Lei cosa pensa di questa teoria?

Come si fa a dire questo? Noi lottavamo per il bene dell’umanità, loro per quale umanità lottavano? Per la razza ariana? Il discorso secondo il quale i fascisti e i nazisti lottavano per un ideale va decisamente respinto. Durante un congresso mi fu detto da un fascista “i morti sono tutti uguali”. No, non è vero; chi è morto sotto le torture non deve essere paragonato al suo torturatore. Una distinzione c’è!

Parliamo anche del cosiddetto revisionismo storico…

E’ pericoloso far parlare gli storici, perché spesso sono di parte.
Basti pensare al francese che negò l’esistenza dell’olocausto! Per questo noi organizziamo le visite ai campi di concentramento. Una volta che i giovani hanno visto, hanno toccato con mano quell’abominio, nessuno potrà più ingannarli dicendo loro che queste atrocità non ci sono mai state.

Oggi di che cosa ha paura?

Degli intrallazzi contro il popolo, dei continui tentativi di sottomettere il più debole.

Nedo Nencioni mi stringe la mano. Lo guardo ancora una volta negli occhi.
Forse la speranza e il coraggio che nascono dalla sofferenza davvero non muoiono mai.
Resta sempre un lampo, un baluginìo nelle pupille, a dispetto delle torture, delle umiliazioni, degli anni che passano via… degli infiniti corsi e ricorsi della storia.
La storia, così stupida e folle, dell’uomo.